Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid

 

“Il fondamentalista riluttante” di Mohsin Hamid
Editore:
Einaudi
Pagine: 144

Siamo nelle strade di Lahore, in Pakistan, e un uomo del posto offre indicazioni ad un americano su come trovare un locale che faccia del buon tè.
Mentre attendono l’arrivo della consumazione, Changez, il pakistano che si rivela essere un professore universitario, inizia il lungo racconto della sua vita con particolare focus sugli anni vissuti negli Stati Uniti; gli studi a Princeton, le vacanze in Grecia con alcuni altri studenti della prestigiosa università tra cui Erica con cui ha una breve e strana frequentazione, il lavoro per cui viene scelto tra centinaia di altri candidati e per cui si impegna fin quasi a dimenticare sé stesso per far guadagnare l’azienda che nel frattempo lo invia un po’ ovunque nel mondo perché svolga il suo dovere, e alla fine gli accadimenti dell’11 settembre 2001.
Proprio l’attentato alle torri gemelle segna uno spartiacque nella vita di Changez, sottolineando un cambio interiore ed esteriore, e una sorta di presa di coscienza che lo porterà a tornare in Pakistan.

Siamo abituati a sentir parlare dell’11 settembre 2001 da una prospettiva occidentale, soprattutto statunitense. Cosa abbia significato quell’attentato per chi non vedeva una guerra in territorio domestico dal tempo della guerra contro i confederati, i racconti delle vite di chi è morto quel giorno o di chi era impegnato nei primi soccorsi o anche di chi era per strada ad assistere a quell’orrore, o anche semplicemente i racconti – che ora sembrano provenire da un altro pianeta – su come facilmente si potesse prendere un aereo senza perquisizioni randomiche o infiniti controlli standard.  
Non è però così comune sentir parlare di cosa quel giorno possa aver significato per chi non è occidentale, per chi si è sempre sentito diverso nella società occidentale perché fatto sentire diverso da tutti quelli che lo circondavano, per chi voleva trovare un posto nel “sogno americano” e poi ha iniziato a vedere le crepe e a sentire qualcosa di stonato.

Posso definire questo romanzo come scomodo, potente, capace di far sentire il lettore in una posizione d’errore solo mettendo a nudo quelle incongruenze che fanno parte della vita di tutti i giorni dell’occidente e che così di frequente vengono fatte sparire sotto il tappeto quando si tratta di dover criticare altri stili di vita, altre culture.
In tutto questo la narrazione è incalzante, il racconto di Changez rapisce e non fa staccare il naso dalle pagine, si vuole sapere dove andrà a parare il racconto, quale sarà la morale di questa lunghissima storia autobiografica, e alla fine ci si sente davvero a quel tavolo, ad attendere il tè migliore di Lahore.

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