Questo buio feroce. Storia della mia morte di Harold Brodkey

 

“Questo buio feroce. Storia della mia morte” di Harold Brodkey
Editore:
Fandango Libri
Pagine: 192

Nel 1993 Harold Brodkey riceve una diagnosi: la polmonite che lo ha colpito non è solo una polmonite, ad essa si accompagna l’AIDS.
In un momento storico ugualmente distante dall’indifferenza clinica verso HIV e AIDS degli anni 70, e dalla medicina odierna che riesce a strappare della normalità alla malattia, la sua diagnosi vuol dire solo una cosa per Brodkey: ha il tempo contato e la morte non è più un qualcosa con cui fare i conti a ottanta o novant’anni.
Quello che fa lo scrittore, quindi, è iniziare a scrivere.
Racconta della diagnosi, della moglie che lo accompagna e lo sostiene in un ribaltamento di ruoli che vede lei ora più forte nonostante la differenza di stazza che li distingue, di come deve aver contratto il virus almeno una ventina d’anni prima del verdetto medico, di come inesorabilmente le forze lo stiano abbandonando man mano che la malattia progredisce, di cosa vuol dire essere nella stessa stanza con la presenza tangibile della Morte che non ti abbandona mai.

Di tutti i libri che ho letto nella mia vita, per stile questo è unico nel suo genere.
È un’autobiografia priva di abbellimenti, è un’insieme di riflessioni taglienti nei confronti di tutto: di sé stesso, della malattia e di come l’ha contratta, di come l’essere umano si approcci alla malattia da “vittima” di essa e da spettatore, di New York e della società statunitense, ma soprattutto Brodkey è elegante e sprezzante allo stesso tempo nei confronti della morte che incombe sulla sua testa come una spada di Damocle.
Non ci sono vittimismi, non ci sono pillole indorate né tanto meno ultimi pensieri drammatici – come in fin dei conti sarebbe anche comprensibile per chi è nelle sue condizioni di malato terminale, di umano con il tempo contato.
Brodkey accoglie la morte con lucidità estrema, facendone una cronaca dal momento della diagnosi di AIDS (e quindi della presa di coscienza di una sua prossima morte) fino a quando ormai è troppo debole anche per scrivere. Non mancano neanche le prese di coscienza sull’iniziale ironia con cui ha preso la diagnosi – quell’ironia tipica di un cervello che non riesce davvero a comprendere il concetto di fine, di morte, abbinato a sé stesso e quindi deve per forza tramutare tutto in un vago siparietto dalle tinte pseudo comiche – e i discorsi sul lascito, o l’assurdo sollievo del tirarsi fuori dai giochi di potere del suo ambiente e dai discorsi sul futuro sempre incerto e mutevole per sua stessa natura, sebbene a causa di una malattia terminale.

Ho scoperto Harold Brodkey con questo libro, con il requiem che si è scritto da solo, ed è stata un’esperienza particolare.
Consiglio la lettura davvero a tutti.


“Non vedo l’utilità della riservatezza. O meglio, non vedo l’utilità di affidare una testimonianza alle mani o alla bocca di altri” – H.B., giugno 1993

Commenti

Post più popolari